domenica 22 maggio 2016

bar tre culi


Il bar dei Tre Culi distava duecento metri dalla mia infanzia. Dai luoghi che contennero la mia infanzia. Dai luoghi che illuminarono la mia infanzia. La illuminarono d’ombra.
Luoghi che furono per me monito e letame. Un mare di letame.
In quel mare dolente imparai a nuotare, ma non ancorai al Bar dei Tre Culi. Non c’era attracco al bar dei Tre Culi. Non c’era speranza. Era un bar trido. Tritato come un vecchio abito ridotto a pezzi. Rimarrà solo un emblema dei luoghi della mia infanzia. Un manifesto nichilista della miseria che non sta nel tessuto logoro ma nello spazio vuoto dello strappo.

Era un bar orribile e ostile d’una tristezza desolante. Era un bar dove non si entrava dove non si usciva. Giaceva all’angolo nord-est all’incrocio tra viale Piacenza e via Rolando De Capelluti. Via Rolando de Capelluti era un affluente di un altro canale di umano scolo a cielo aperto: via Buffolara. Ma questo è un altro girone.
Viale Piacenza traghettava mirabili fiat millecento, fulgide lancia fulvia o centoventisette che veloci e indifferenti passavano. Lì non si fermava nessuno. Viale Piacenza, come prometteva il nome, ti portava lontano. E tra i nativi in pochi riusciranno a evadere dalla crudeltà artigliante di quella subvivenza.
Io in qualche modo vi riuscii.
Il bar era inumato su di un angolo tondo. I quattro angoli dell’incrocio si distinguevano in cispiacenzini e transpiacenzini.
A sud il bestiame e suoi prodotti. A sud est una latteria a sud ovest un macellaio. Il piscio mammario bianco e il rosso carne carcassa di vacca al di sotto della linea gotica. A nord le bestie, viste dal lato più basso dell’esistere. A nord-ovest c’era il ragazzo scarabocchio, un diversamente abile, suggerirebbe la spocchia lessicale del maestrinismo castrante di questa nostra era del domopack, un sfortunè, si diceva in forma più lucida e pietosa di chi un gran culo in partenza non l’aveva poi avuto, o in modo più comparativo un poc normèl, o più genericamente un mongol.
Il ragazzo scarabocchio se ne stava sul balcone ululante a una luna tutta sua. Era di un brutto da far spavento. Io bambino ne ero terrorizzato. Ero convinto che l’avessero rinchiuso sul balcone, uno di quei balconi che parevano per trama ferrosa un gabbio dove il ragazzo artigliava i suoi diti a salsiccia tumefatta cercando di sradicare il ferro dal macilente cemento, che l’avessero rinchiuso sul balcone perché all’interno della casa non si poteva tenere. Probabilmente, pensavo, è un cannibale. O forse azzanna solo e non manda giù, ma semplicemente morde staccando brandelli di carne ai suoi famigliari spaccando in due il gatto amputando gli ultimi pezzi di una rinsecchita nonna dimenticata dimenticata nel cesto della roba sporca e poi lancia i brandelli ad appiccicarsi  alla carta da parati che effettivamente a guardarla fa schifo, manifestando un senso dell’arte ragguardevole.
Il ragazzo era la perfetta riproduzione plusdimensionale di un disegno fatto da un bimbo di quattro anni: un faccione perfettamente tondo con un concentrato centrale in spazio minimo ottimizzato in una selva inestricabile di occhinasobocca su di un corpaccione senza confini ben tracciati. E latrava disperato e costante. Un canto rabbioso intarsiato di tristezza. Un canto che chiedeva a Dio il perché di tutto questo. E dal cielo giungeva quel eh oh! Che non offriva replica.

Il traffico d’automobile o il latrare del ragazzo non turbava minimamente il vegetare degli occupanti del Bar dei Tre Culi sull’angolo nord-est. Giocavano a carte, in un silenzio abissale. Un silenzio ch’era rigurgito d’olbio.

Se a questo punto pentiti per avere tentato di rendere così laidamente vivida una ricordanza fondante e terrificante, io, volessimo chiedere scusa all’auditorio descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu, che la noia del presente assillante ci porta a dire che erano meglio quei tempi di questi, in un  in una improponibile classifica di infiniti ieri contro un unico istante dell’oggi che non si incontreranno mai se non nell’esalazione del respiro dell’attimo che muore ma se muore non può più giocare e che classifica classifichi… se pentiti volessimo descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu, che ogni tanto il quotidiano locale, che non è più fatto con quella carta della barzelletta che ci narra le vicende di un vecchio e una vecchia impegnati in un turbinoso atto erotico carpiato ad incastro omoservente, dove il vecchio interrompendo il suo ammirevole sforzo linguale esclama – eh, set cle mort Fereri! - Al che la vecchia attonita e stupita abbandona la sua lodevole oralità e prorompe in un – eh, mo chi tla dit? – al che lapidario il canuto replica – eh, l’ò let in col toc ed gaseta cat ghe taca al cul!- se pentiti volessimo descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu, scriveremmo di un osteria povera ma linda e serena risuonante di urla gioiose e risate appassionate dei popolani, che in codesto loco ritrovano la pace del riposo dal duro ma onorato lavoro. Se così facessimo sarebbe come mutilare a colpi di marassa lo scroto alla verità. Non c’erano urla gioiose e risate appassionate dei popolani. L’afflizione della miseria, della tridura, portava gli avventori a mantenere un mesto silenzio anche durante le fasi salienti del gioco delle carte, quasi volessero nascondersi, tacendo, alla sfiga. Si sa che vi sono luoghi dove se tutto va per il meglio si nasce con due braccia due gambe e una sfiga impiantata dove volete voi come la spada nella roccia arturiana. Quella sfiga che accomuna tutti i lerciosi, che vorrebbero togliersela di dosso ma della sfiga non può mutilarti nessuno. È immutilabile. Nessun principe a cavarti l’arnese dal fodero natio. Perché la sfiga è più fedele di un cane. Non ti molla.
E allora vi racconto del bar dei Tre Culi così come lo ricordo, come mi torna a galla tra la melma dei miei quotidiani incubi.
Il bar dei Tre Culi anche nei periodi caldi dell’anno era mestamente silenzioso buio lampadina patinata di sugna e polvere e giallo nebbioso . Allora si poteva fumare nei bar, anche il mio maestro fumava duro in classe finché non fu obbligato dai polmoni consunti a tenersi in bocca una sorta di tubetto di vicks inalante fatto a finta sigaretta…
Pochi anni fa, di passaggio nella città di Parigi… a tal proposito vorrei testimoniare che Parma non ha nulla a che vedere con la Villa Luminaria, e non capisco come ci si ostini a definirla la Piccola Parigi, quando in realtà assomiglia molto di più e sempre di più ad Abbiategrasso. E di grasso ne abbiamo in abbondanza. Quel grasso di porco che lento e inesorabile infagotta il cervello limitandone cronicamente le più alte sue funzioni e affogandolo nella convinzione di essere ciò che non si è. Non smettete di fumare, mal che vada ci lasciate le piume in anticipo o forse in ritardo, ma smettete di mangiare carnazza rancida ben che vada vi ha già fatto divenire idioti…

Qualche anno fa di passaggio nella città di Parigi in un bel ristorantaccio nei pressi della Sorbona fumai con gusto dopo una tartarre di manzo, di quelle che i romantici usano legarsi al collo prima di tuffarsi nella Senna, in un bel ristorantaccio nei pressi della Sorbona fumai con gusto una delle ultime sigarette in antro pubblico.
Che bellezza. Che sensazione di libertà. E la sigaretta era una papier mais, una gitane fatta con carta gialla di mais senza filtro e molto forte e molto poco salutare come le esalazioni di un copertone che brucia.
Il bar dei Tre Culi. Non è mai stato raccontato nella rubrica della bella Parma che fu, forse perché troppo palesato nella sua tridezza anche per i fasulli cantori dei tempi che furono quei tempi che ora non sono più dove la gente era povera ma onesta e felice. Ah che nostalgia, dove è finita l’onesta umiltà dell’incedere della vita degli artigiani, dove sono le massaie tutte casa bambini e pentolini, la loro saggezza culinaria, e cosa ne è della gioia dello stare assieme dopo la lunga giornata di lavoro?
Questo straziante verismo, falso come i fondali di un noiosissimo dramma borghese ha sfinito anche se stesso. La miseria è cruda è magra ed è anche cattiva, giustamente cattiva. E allora ha bisogno di santi. I suoi santi non si chiamano sant’Ambrogio o Gregorio o Sferisterio, ma Lino o Ghiradino, santi anarchici santi che celebravano messa correndo a portare un sorriso e una minestra all’innumerevole schiera di sfiga congenita e penitente, una minestra condita di amore sconfinato e folle come piace a Dio a quel Dio che piace a me che se ci ha creati così come siamo è fuori di testa ma molto fuori di testa ma nessuno può togliergli la licenza di creare e allora lui va avanti, san Lino o san Ghiradino, santi anarchici santi che celebravano messa correndo a portare un sorriso e una minestra alla vecchia al carcerato al ragazzo scarabocchio agli innumerevoli sfigati, ma che davanti al Tre Culi si fermavano e tornavano indietro. La miseria è cattiva e   l’artigiano al lavoro probabilmente, mio caro spacciatore di pellicola protettiva, passava più tempo a sacramentare che a cantare un’aria verdiana. La femmina più che regina della casa era schiava di un uomo che con il matrimonio regolarizzava un sequestro di persona a scopo di libidine alla quando mi tira ti sbatto dal ventre per raccolta differenziata tutto scopost. E se la femmina non era brutta contro ogni logica geometrica, sfondata nei suoi punti cardine, deformata dalla nascita, dalla vita, dal lavoro, dal logoramento di sgravate a sharpnel, poteva ancora sperare in qualcosa. In una sveltina da consumarsi nel giro di pochi rantoli con il carrettiere o il venditore di sardine sotto sale nella cantina buia dove noi respiravamo piano e poi... in certi luoghi dove l’afflizione impera non si fa mai all’amore ma si imbraga si piglia nelle lamiere poccia si butta su della legna. O con metafora in puzzo di Dante si va a buttèr su d’la lègna.
Questi schiavi di penna edulcociti cresciuti nei piccoli agi della cecità vigliacca, che scrivono falsità e castronate sulla miseria, perché temono gli si riveli il senso recondito della vita, questi servi della nulla non vogliono ammettere che l’essere umano può anche essere un magnifico rottamente saldato a sputi che barcolla sull’esistenza senza afferrarne la più elementare sottigliezza. Queste cacche con le penne dovrebbero essere mandate in campo di rieducazione al bar dei Tre Culi, o dati in pasto al ragazzo scarabocchio affamato di carne e amore.
Questi cattivi pittori della parola hanno anche una moglie, è quella deliziata signora di mezza età e mezza  forse la mogliera dell’escremento escrivente mi chiede al termine del mio sforzo artistico: -ma lei che scuola di teatro ha frequentato?- e io – la Racagni- e lei – ohaahuuh mi dice qualcosa ma non ricordo… ma il direttore non è forse il famoso…- e io ancora – il direttore non so… io ricordo solo il bidello un tal Barantani con tanto di cappello da ufficiale in testa scozzale nero e il suo porca cicolada che equivaleva a qualsiasi tipo di esortazione – e lei – ah Barantani quello della prestigiosa compagnia… quindi non può che trattarsi dell’accademia si… e io sfinito- signora cara, la Racagni è la scuola elementare del posto più miserabile del ducato di Parma…-.
Si, cara la mia signora, se proprio vuole che sia un accademia lo sia di verità, c’è tanta verità nel quartiere della mia infanzia, verità non virtuosa, ma messa a nudo dallo scarnificante esistere. Che scuola a contrasto! In casa ascoltavo gli svariati Strauss, o la voce di un Foà cantar di Dante, ammiravo lo sciogliersi velato dei colori che mio padre spandeva sulle sue tele, e fuori ad aspettarmi c’era il Tre Culi, c’era il garzone del bottegaio, anche lui decisamente disassato e di mente non dinamica, di nome Ettore che parlava sbavando in mille rivoli, spesso volanti nell’aria e talvolta atterranti sul pane che portava in quel cesto sul suo biciclettone rinforzato e ortopedico, c’era il requiem quotidiano per bestemmia, la sensualità ancestrale animale della sorella dell’ortolano portante la prima minigonna avvistata nei Prati Bocchi, e c’era l’attesa del suo chinarsi a raccoglie quella cassetta là in basso, nella vana attesa di veder sorgere il mistero celato dalla mutanda. C’era il brivido profondo curioso di struscio tra corpi sudori e polvere di noi maschietti tra noi maschietti talvolta con femminuccia nostra ketcup su patatine, tanto che differenza c’era. E c’era tanto altro o nulla più. Si, cara la mia signora. All’accademia Racagni c’era anche una specializzazione in teatro della crudeltà, c’era la sezione differenziale dove si accatastavano i bimbi con ritardi mentali, fisici, caratteriali, in un unico serraglio, per tenerli celati e lontani dagli altri, mai fosse che con le loro bave potessero ungerci, e poco importa se la bava di Ettore già infarciva inesorabile la nostra rosetta con mortadella. Forse anche per questo, cara la mia signora, non riesco a portare l’orologio da polso e detesto lo zoo, ma certe notti mi sveglio affamato e mi sembra di sentire l’aroma graffiante della rosetta con mortadella e mi dico: i buoni sapori di una volta che ora non ci sono più.
Alle fosche ombre del pentimento che ti fanno dire ma che cazzo ho scritto, occorre opporre all’immediato un finale: vi è una domanda che esige una risposta. Quella risposta all’unica domanda sensata che tutti ci siamo fatti e che poteva porre termine a questa storia nel giro di poche battute. Perché bar dei Tre Culi? Alla camera di commercio non lo trovi sotto quel nome. Tre è un numero simbolico, crea un insieme dinamico superiore al dualismo statico del due, quindi tre potrebbe puntare all’essere sinonimo di infinito o di plurimo. Culi è una pluralità di esigenze. Il Tre Culi era un luogo per vecchi logorati in attesa dell’unico forestiero che lì vi sostava per ripartire al più presto: Caron Dimonio. Il sito della triade anale era un luogo dove nell’attesa dell’imbarco si beveva vino pessimo contenuto nell'archeologico bottiglione da due litri e si fumava senza interruzione un campionario di sigarette di fattura nazionale che andava dalle cartonate alfa, alle indecifrabili MS. Questa miscela di afflizione morale cronica, vino crudele, e tabacco diserbante, portava a una inevitabile fermentazione nelle viscere afflosciate, un latrante incedere di nubi dense di fetenza che, vuoi per l’usura del tempo e del vivere, vuoi per una assoluta noncuranza del prossimo, si esprimeva in mostruosa deflagrazione cronica corale e tempestosa di scorreggia epica. L’aroma pestilenziale si dilatava all’esterno del locale, in un fosco presagio cernobiliano. Un presidio costante. Qualche mente con spiccato senso della sintesi passando d’innanzi a questa uscita di sicurezza dell’inferno battezzò il luogo con il sarcastico e lapidario TRE CULI. Un lezzo narrativo. Un fetore che si racconta. Un omerico spander di sisso. In puzzo si fa immagine, come un quadro di Munch urla per mezzo delle tre bocche anali spalancate sul fetido orror vacui, e ci racconta la Parma di una volta che ora non c’è più.

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