martedì 20 novembre 2012

in via Rolando dé Capelluti c'erano delle panchine






In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine. In uno spazio tra il numero civico 34 e il numero civico 36. Al 34 abitava C.P.. Un ragazzo. Un coetaneo. Un Capannone.

Stacco
In questo racconto i Capannoni sono da intendersi come esseri umani e non strutture edilizie impermanenti. Il curioso termine  deriva dalle fatiscenti case-baracca dove negli anni ’20 del novecento vennero trasferiti una buona parte degli abitanti dell’Oltretorrente. Il nome di questo quartiere e di questa filosofia è dato dal fatto di stare dall’altra parte del fiume. Qualche spanna oltre i nasini della ParmaBene.

in via Rolando dè Capelluti c’era gente speciale. Irripetibile. CpuntoPpunto l’è v’on ‘n po’ originäl. È nato in via Rolando dè Capelluti. Un’irripetibilità indelebile. Anche se la sposti di posto. Negli anni ottanta i Capannoni furono spostati. Un altra volta. Parcellizzati in nuovi quartieri. Non devono fare radici forti. I capannoni. C’erano nuovi scatoloni di cemento da spianare (inaugurare). Nuovi da far schifo. CpuntoPpunto è in piazzale Charlie Chaplin. Un Chaplin che non fa ridere. CpuntoPpunto con cappello da conboi  stella da sceriffo in plastica colt anch’essa rigorosamente di plasticaccia ‘nni sessanta. Tciuchioo! Uno sparo. Con la bocca. Sfiuuu. Con la bocca CpuntoPpunto soffia sulla canna. Mentre ripone la pistola nella fondina con stella da sceriffo CpuntoPpunto ha quasi trentanni. Ci stiamo avvicinando ai terribili anni novanta. Ci stiamo allontanando dai terribili anni ottanta quando ancora CpuntoPpunto abitava al numero civico 34 di via Rolando dè Capelluti.

In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine. In uno spazio tra il numero civico 34 e il numero civico 36. Al 36 dimorava M.Ù. ragazza di fiera stirpe sicula. Nell’epoca della ricostruzione post-bellica quando ci si rammendava il culo di fresco sfondato dallo ienchimericano l’immigrazione dalla Bassitalia venne a rabboccare l’antica strirpe Capannona che rischiava l’estinzione.

MpuntoÙpunto ha pelle color dell’oliva scura occhi grandi come arance e una magrezza da pescatore. MpuntoÙpunto non venne considerata dall’opinione pubblica maschile capannonesca un oggetto di desiderio.

stacco
In via Rolando dè Capelluti - e non siamo in qualche tundrico ...stan ma nella illuminata Padanìa- le femmine extramamma si dividevano in cinque sottogruppi:

da tor su e portär a ca (da prendere su e portare a casa): intoccabili per bellezza e ceto sociale. Specie migrante da piazzale Pablo a misteriose zone del più ambito Centro Città. Si muovono in bicicletta e gonna. Solitamente rapite dall’estasiato maschio in forma d’immagine mnemonica. Il resto accadeva nell’intimità.

da sposär (sposabili): toccabili ma dopo certezza di accasamento a fin che morte del marito non ci separi. Di bellezza e intelligenza media o variabile. Rigorosamente illibate o variabili. All’apparenza addomesticabili. In realtà domatrici senza variabile.

da drovär (adoperabili): generose democratiche con predisposizione e posizione naturale all’insegnamento con cattedra in ars amatoria al motto di moschettiera memoria una per tutti (la propria) tutti per una (la platonica). In assenza di cattedra si usava il ruvido prato del Maretto.

Mas-ciass (maschiaccio): femmine che rinnegano il loro status naturale di nascita per confluire nel serraglio maschile. Per accedere a questa ambita sottoclasse era necessario divenire una sorta di amazzone. Giocare a calcio e bene. Saper sputare dritto e lungo senza disperdere il bolo lateralmente o sugli indumenti. Ruttare fragorosamente a schiocco di frusta. Il peto era facoltativo ma quelle che riuscivano ascendevano inesorabilmente al vertice della casta.  Quando la situazione lo richideva potevano prendere o dare cazzotti ed erano più quelli dati che presi.  Una volta iniziate le maschiaccio erano accettate dal branco cazzuto e rispettate come e più dei minchiuti nativi.

da butär in tal rud (da buttare nella spazzatura). Cessi inesorabili.

MpuntoÙpunto non rientrava in alcuna di queste sommarie categorie. Agli occhi del maschio pabliano aveva una sorta d'inviolabile invisibilità fuori da ogni classificazione possibile: invisibile né brutta né bella né pasta né riso. Grave errore. MpuntoÙpunto era bella.
Ero un diversamentepensante anche allora e la fiera sicula dagli occhi all’arancia ai miei risultava semplicemente bella. E la bellezza non ha categorie non si divide né si classifica. Esiste. Una bellezza visibile a chi attraverso uno strappo nello straccio del tempo intuisce il richiamo ancestrale di tratti somatici sopravvissuti allo stratificarsi di generazioni. MpuntoÙpunto è uno di quegl’esseri privilegiati portatori d’ancestrali sapienze riprodotte sul proprio soma che ci indicano la luminosa via del mistero. Una donna romanica e barocca. Una donna fluttuante tra sublime e sub-limo. La voce era stupenda. Una creatura con testa di violino e corpo di flauto. Ho cantato con lei sulle panchine tra il 34 e il 36. Con l’aiuto di ragazzi mormoni in missione nei sottofondi pabliani si fece una canzone che ancora oggi risuona nei corridoi abbandonati del ricordo. Il canto parlava di riflessioni nello specchio in un gioco di sovrapposizioni tra anima e apparenza. Quando MpuntoÙpunto rideva squillava e i suoi occhi aranciati mettendosi a roteare la sollevavano verso l’alto. Si allungava. Non le ho mai confessato la mia passione non avrei saputo esprimermi e forse nemmeno sapevo con esattezza d’avere una passione. Non sapevo neppure se il mio polo d’attrazione fosse maschio o femmina. Non rendere materia di consumo il desiderio ha salvato la sua immagine di sacerdotessa da banalità di corpo e umori. La melma dell’amarsi per non amarsi più non l’ha soffocata. La melma del miserabile quartiere non l’ha fagocitata. È finita in America. E in America canta. Nel mio cuore la sacerdotessa è salva.

In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine tra il numero 34 e il numero 36, forse progettate da un geometro ricostruttore postbellico che in un momento di rara lucidità e di ancor più rara umanità si fece qualche scrupolo riguardo ai loculi da lui progettati: 40 metri quadri da dividersi per sei o più esseri tutto sommato umani possono creare problemi di respirazione collettiva. Il geometro quindi creò un’area di boccheggio. E boccheggi furono le panchine tra il 34 e il 36. Da maggio a ottobre furoreggiavano di salubre e bellicosa giovinezza una magnifica schiatta di mischiati dalla sorte.

Stacco
I trinariciuti ricostruttori postfottutabellica s’inventarono un caos edilizio senza precedenti gettando a raglio nei loro scatoloni in mattone le quattro semenze sociali superstiti. La popolare. La residenzial-signorile. L’artigianale. L’industriale. Umane classi trasformate in carte da briscola mescolate nel fantasioso gioco della speculazione edilizia e gettate in quelli che furono i campi di un tal Bocchi. Operai ex-contadini artigiani professionisti intellettuali artisti tutti deportati da altri Oltre- furono precipitati nel nuovo minestrone edilizio. Nuove famiglie non appartenenti alla placca della borghesia consolidata si ritrovarono unite attorno al centro di quell’orribile esempio di piazzale pensato e disegnato da un Mondrian padano scosso da deliri dovuti all’eccesso di margarina rancida: Piazzale Pablo. Un giardino degli orrori. Come accade in tutti i luoghi di detenzione forzata ci si stringeva in solidarietà altrimenti impensabili. È in questi luoghi di convivenza forzata e rafforzante tra individui di differenti classi sociali uniti da un innato spirito anarchico che da secoli si è mantenuta eretta la spina dorsale di una città altrimenti gobba e irrimediabilmente bosucca (testona crapulona) e chiusa come il culo di uno che s’è mangiato un albero di limone (endemiche caratteristiche dell’adiposa sonnuta e acida classe dominante parmigggiana). In questi luoghi io sono nato. Luoghi fuori. Fuori luogo. Io non avrei dovuto essere là. Eppure c’ero.

In via Capelluti c’erano delle panchine. Erano quattro. Erano di cemento conficcate nel muro. Avevano la forma di un biscottone plasmon spiaccicato sul muro da un bambinone schizzato. Brutte. Ma funzionali. Facevano centro facevano ombelico facevano bus dal gnao (cavità anale). Erano un libero e spontaneo luogo di ritrovo. Erano i miei quattordici anni. Probabilmente due di meno. Quattordici suona meglio di dodici. Una figura alta lunga di lunghi capelli. I tratti da femmina fiamminga. È in quel luogo che ebbi la prima folgorazione verso la via impervia del teatro. In realtà volevo dirigere un film. E film di fatto fu. Un film senza la macchina da presa e la pellicola. Un film vano inesistente. Il film perfetto. Inattaccabile dal morbo dell’invecchiamento. Senza produttori. Solo prodotti dell’attimo che non fugge perché non esiste e quindi non ha le gambe. Non sapevo allora che tutto questo si poteva chiamare teatro. Il soggetto straordinariamente già trito. Rivalità tra due clan. Ma guarda un po’?! La fiera sicula come colonna sonora costante. Un moto perpetuo di emozioni. Due ragazzi si innamorano. Uno di un clan l’altra dell’altro. Non s’ha da fare. Ma non dirmi! I due clan si scontrano. L’azione è d’un realismo sconcertante. Casino allo stato brado. L’ultima scena vede un getto d’acqua proveniente da una delle tante finestre schiantarsi sul set. Non era in scaletta. Sui titoli di coda si vedono i due clan riunirsi per rilanciare insulti e altri non identificati oggetti verso le finestre nemiche. Non era in scaletta. Fine. Il cuore traboccante di gioia. Abbiamo fatto un film. Bello. I due clan che si menano. Geniale. Si va nei loculi. Solo il regista e qualche suo centurione restano a godere l’eco del fragore espresso.
Arriva un Fiat 128. Dentro due uomini. Scende quello dalla parte del passeggero. Corpulento baffi a foca. Moro. Il tutto fa molto maschio latinoamericano. È un poliziotto. La cravatta gli assomiglia in modo sorprendente. È corpulenta. Un rantolo corpulento gli esce dalla bocca. Dice. La prossima volta che rompete i coglioni io vi rompo le ossa. Il manganello che sbattacchia sulla corpulenta mano sorride all’idea. In quel momento decido. Senza dirmelo.  Farò del teatro.

In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine tra il numero 34 e il numero 36. Qualche oscuro Stalin ducale le fece abbattere. Come fossero il set di un film. Le nostre panchine. I nostri orribili biscottoni Plasmon. Ci abbattemmo. Come fossimo un film.