In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine. In uno spazio tra il numero civico 34 e il numero civico 36. Al 34 abitava C.P.. Un ragazzo. Un coetaneo. Un Capannone.
Stacco
In
questo racconto i Capannoni sono da intendersi come esseri umani e non
strutture edilizie impermanenti. Il curioso termine deriva dalle
fatiscenti case-baracca dove negli anni ’20 del novecento vennero trasferiti
una buona parte degli abitanti dell’Oltretorrente. Il nome di questo quartiere
e di questa filosofia è dato dal fatto di stare dall’altra parte del fiume.
Qualche spanna oltre i nasini della ParmaBene.
in via Rolando dè Capelluti c’era gente
speciale. Irripetibile. CpuntoPpunto l’è v’on ‘n po’ originäl. È nato in via
Rolando dè Capelluti. Un’irripetibilità indelebile. Anche se la sposti di
posto. Negli anni ottanta i Capannoni furono spostati. Un altra volta.
Parcellizzati in nuovi quartieri. Non devono fare radici forti. I capannoni.
C’erano nuovi scatoloni di cemento da spianare (inaugurare). Nuovi da far
schifo. CpuntoPpunto è in piazzale Charlie Chaplin. Un Chaplin che non fa
ridere. CpuntoPpunto con cappello da conboi stella da sceriffo in
plastica colt anch’essa rigorosamente di plasticaccia ‘nni sessanta. Tciuchioo!
Uno sparo. Con la bocca. Sfiuuu. Con la bocca CpuntoPpunto soffia sulla canna. Mentre ripone la pistola nella fondina con stella da sceriffo CpuntoPpunto ha quasi trentanni. Ci stiamo avvicinando ai terribili anni novanta. Ci stiamo allontanando dai terribili anni ottanta quando ancora CpuntoPpunto abitava al
numero civico 34 di via Rolando dè Capelluti.
In via Rolando dè Capelluti c’erano delle
panchine. In uno spazio tra il numero civico 34 e il numero civico 36. Al 36
dimorava M.Ù. ragazza di fiera stirpe sicula. Nell’epoca della ricostruzione
post-bellica quando ci si rammendava il culo di fresco sfondato dallo
ienchimericano l’immigrazione dalla Bassitalia venne a rabboccare l’antica
strirpe Capannona che rischiava l’estinzione.
MpuntoÙpunto ha pelle color dell’oliva scura occhi grandi come arance e una magrezza da pescatore. MpuntoÙpunto non
venne considerata dall’opinione pubblica maschile capannonesca un oggetto di
desiderio.
stacco
In
via Rolando dè Capelluti - e non siamo in qualche tundrico ...stan ma nella illuminata Padanìa- le femmine extramamma si dividevano in cinque
sottogruppi:
da
tor su e portär a ca (da prendere su e portare a casa): intoccabili per bellezza
e ceto sociale. Specie migrante da piazzale Pablo a misteriose zone del più
ambito Centro Città. Si muovono in bicicletta e gonna. Solitamente rapite
dall’estasiato maschio in forma d’immagine mnemonica. Il resto accadeva
nell’intimità.
da
sposär (sposabili): toccabili ma dopo certezza di accasamento a fin che morte
del marito non ci separi. Di bellezza e intelligenza media o variabile.
Rigorosamente illibate o variabili. All’apparenza addomesticabili. In realtà
domatrici senza variabile.
da
drovär (adoperabili): generose democratiche con predisposizione e posizione
naturale all’insegnamento con cattedra in ars amatoria al motto di moschettiera
memoria una per tutti (la propria) tutti per una (la platonica). In assenza di
cattedra si usava il ruvido prato del Maretto.
Mas-ciass
(maschiaccio): femmine che rinnegano il loro status naturale di nascita per
confluire nel serraglio maschile. Per accedere a questa ambita sottoclasse era
necessario divenire una sorta di amazzone. Giocare a calcio e bene. Saper sputare
dritto e lungo senza disperdere il bolo lateralmente o sugli indumenti. Ruttare
fragorosamente a schiocco di frusta. Il peto era facoltativo ma quelle che
riuscivano ascendevano inesorabilmente al vertice della casta. Quando la situazione lo richideva potevano prendere o dare cazzotti ed erano più quelli dati che presi. Una volta
iniziate le maschiaccio erano accettate dal branco cazzuto e rispettate come e più dei minchiuti nativi.
da
butär in tal rud (da buttare nella spazzatura). Cessi inesorabili.
MpuntoÙpunto non rientrava in alcuna di
queste sommarie categorie. Agli occhi del maschio pabliano aveva una sorta
d'inviolabile invisibilità fuori da ogni classificazione possibile: invisibile
né brutta né bella né pasta né riso. Grave errore. MpuntoÙpunto era bella.
Ero un diversamentepensante anche allora e la
fiera sicula dagli occhi all’arancia ai miei risultava semplicemente bella. E
la bellezza non ha categorie non si divide né si classifica. Esiste. Una
bellezza visibile a chi attraverso uno strappo nello straccio del tempo
intuisce il richiamo ancestrale di tratti somatici sopravvissuti allo stratificarsi
di generazioni. MpuntoÙpunto è uno di quegl’esseri privilegiati portatori
d’ancestrali sapienze riprodotte sul proprio soma che ci indicano la luminosa
via del mistero. Una donna romanica e barocca. Una donna fluttuante tra sublime
e sub-limo. La voce era stupenda. Una creatura con testa di violino e corpo di
flauto. Ho cantato con lei sulle panchine tra il 34 e il 36. Con l’aiuto di
ragazzi mormoni in missione nei sottofondi pabliani si fece una canzone che
ancora oggi risuona nei corridoi abbandonati del ricordo. Il canto parlava di
riflessioni nello specchio in un gioco di sovrapposizioni tra anima e
apparenza. Quando MpuntoÙpunto rideva squillava e i suoi occhi aranciati
mettendosi a roteare la sollevavano verso l’alto. Si allungava. Non le ho mai confessato
la mia passione non avrei saputo esprimermi e forse nemmeno sapevo con
esattezza d’avere una passione. Non sapevo neppure se il mio polo d’attrazione
fosse maschio o femmina. Non rendere materia di consumo il desiderio ha salvato
la sua immagine di sacerdotessa da banalità di corpo e umori. La melma
dell’amarsi per non amarsi più non l’ha soffocata. La melma del miserabile
quartiere non l’ha fagocitata. È finita in America. E in America canta. Nel mio
cuore la sacerdotessa è salva.
In via Rolando dè Capelluti c’erano delle
panchine tra il numero 34 e il numero 36, forse progettate da un geometro
ricostruttore postbellico che in un momento di rara lucidità e di ancor più
rara umanità si fece qualche scrupolo riguardo ai loculi da lui progettati: 40 metri
quadri da dividersi per sei o più esseri tutto sommato umani possono creare
problemi di respirazione collettiva. Il geometro quindi creò un’area di
boccheggio. E boccheggi furono le panchine tra il 34 e il 36. Da maggio a
ottobre furoreggiavano di salubre e bellicosa giovinezza una magnifica schiatta
di mischiati dalla sorte.
Stacco
I
trinariciuti ricostruttori postfottutabellica s’inventarono un caos edilizio
senza precedenti gettando a raglio nei loro scatoloni in mattone le quattro
semenze sociali superstiti. La popolare. La residenzial-signorile.
L’artigianale. L’industriale. Umane classi trasformate in carte da briscola
mescolate nel fantasioso gioco della speculazione edilizia e gettate in quelli
che furono i campi di un tal Bocchi. Operai ex-contadini artigiani
professionisti intellettuali artisti tutti deportati da altri Oltre- furono
precipitati nel nuovo minestrone edilizio. Nuove famiglie non appartenenti alla
placca della borghesia consolidata si ritrovarono unite attorno al centro di quell’orribile
esempio di piazzale pensato e disegnato da un Mondrian padano scosso da deliri
dovuti all’eccesso di margarina rancida: Piazzale Pablo. Un giardino degli
orrori. Come accade in tutti i luoghi di detenzione forzata ci si stringeva in
solidarietà altrimenti impensabili. È in questi luoghi di convivenza forzata e
rafforzante tra individui di differenti classi sociali uniti da un innato
spirito anarchico che da secoli si è mantenuta eretta la spina dorsale di una
città altrimenti gobba e irrimediabilmente bosucca (testona crapulona) e
chiusa come il culo di uno che s’è mangiato un albero di limone (endemiche
caratteristiche dell’adiposa sonnuta e acida classe dominante parmigggiana). In
questi luoghi io sono nato. Luoghi fuori. Fuori luogo. Io non avrei dovuto
essere là. Eppure c’ero.
In via Capelluti c’erano delle panchine.
Erano quattro. Erano di cemento conficcate nel muro. Avevano la forma di un
biscottone plasmon spiaccicato sul muro da un bambinone schizzato. Brutte. Ma
funzionali. Facevano centro facevano ombelico facevano bus dal gnao (cavità
anale). Erano un libero e spontaneo luogo di ritrovo. Erano i miei quattordici
anni. Probabilmente due di meno. Quattordici suona meglio di dodici. Una figura
alta lunga di lunghi capelli. I tratti da femmina fiamminga. È in quel luogo
che ebbi la prima folgorazione verso la via impervia del teatro. In realtà
volevo dirigere un film. E film di fatto fu. Un film senza la macchina da
presa e la pellicola. Un film vano inesistente. Il film perfetto. Inattaccabile dal morbo dell’invecchiamento. Senza produttori. Solo prodotti
dell’attimo che non fugge perché non esiste e quindi non ha le gambe. Non
sapevo allora che tutto questo si poteva chiamare teatro. Il soggetto straordinariamente già trito. Rivalità tra due clan. Ma guarda un po’?! La fiera sicula come colonna sonora costante. Un moto perpetuo di emozioni. Due ragazzi si
innamorano. Uno di un clan l’altra dell’altro. Non s’ha da fare. Ma non dirmi! I due clan si scontrano.
L’azione è d’un realismo sconcertante. Casino allo stato brado. L’ultima scena
vede un getto d’acqua proveniente da una delle tante finestre schiantarsi sul
set. Non era in scaletta. Sui titoli di coda si vedono i due clan riunirsi per
rilanciare insulti e altri non identificati oggetti verso le finestre nemiche.
Non era in scaletta. Fine. Il cuore traboccante di gioia. Abbiamo fatto un
film. Bello. I due clan che si menano. Geniale.
Si va nei loculi. Solo il regista e qualche suo centurione restano a godere
l’eco del fragore espresso.
Arriva un Fiat 128. Dentro due uomini. Scende
quello dalla parte del passeggero. Corpulento baffi a foca. Moro. Il tutto fa
molto maschio latinoamericano. È un poliziotto. La cravatta gli assomiglia in
modo sorprendente. È corpulenta. Un rantolo corpulento gli esce dalla bocca.
Dice. La prossima volta che rompete i coglioni io vi rompo le ossa. Il
manganello che sbattacchia sulla corpulenta mano sorride all’idea. In quel
momento decido. Senza dirmelo. Farò del teatro.
In via Rolando dè Capelluti c’erano delle
panchine tra il numero 34 e il numero 36. Qualche oscuro Stalin ducale le fece
abbattere. Come fossero il set di un film. Le nostre panchine. I nostri
orribili biscottoni Plasmon. Ci abbattemmo. Come fossimo un film.
ciao Umberto! Complimenti per il blog! In caso non mi riconoscessi, sono Benedetta (sì, sorella di Cecilia!) in tenuta 'da lavoro'.
RispondiEliminaAh, avevo iniziato a parlarti tipo 3 anni fa di una mia amica che lavora anche lei con marionette e bambole che costruisce da sola, ti mando il link così se vuoi vedi. Si chiama Gisele Vienne,
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