domenica 22 maggio 2016

bar tre culi


Il bar dei Tre Culi distava duecento metri dalla mia infanzia. Dai luoghi che contennero la mia infanzia. Dai luoghi che illuminarono la mia infanzia. La illuminarono d’ombra.
Luoghi che furono per me monito e letame. Un mare di letame.
In quel mare dolente imparai a nuotare, ma non ancorai al Bar dei Tre Culi. Non c’era attracco al bar dei Tre Culi. Non c’era speranza. Era un bar trido. Tritato come un vecchio abito ridotto a pezzi. Rimarrà solo un emblema dei luoghi della mia infanzia. Un manifesto nichilista della miseria che non sta nel tessuto logoro ma nello spazio vuoto dello strappo.

Era un bar orribile e ostile d’una tristezza desolante. Era un bar dove non si entrava dove non si usciva. Giaceva all’angolo nord-est all’incrocio tra viale Piacenza e via Rolando De Capelluti. Via Rolando de Capelluti era un affluente di un altro canale di umano scolo a cielo aperto: via Buffolara. Ma questo è un altro girone.
Viale Piacenza traghettava mirabili fiat millecento, fulgide lancia fulvia o centoventisette che veloci e indifferenti passavano. Lì non si fermava nessuno. Viale Piacenza, come prometteva il nome, ti portava lontano. E tra i nativi in pochi riusciranno a evadere dalla crudeltà artigliante di quella subvivenza.
Io in qualche modo vi riuscii.
Il bar era inumato su di un angolo tondo. I quattro angoli dell’incrocio si distinguevano in cispiacenzini e transpiacenzini.
A sud il bestiame e suoi prodotti. A sud est una latteria a sud ovest un macellaio. Il piscio mammario bianco e il rosso carne carcassa di vacca al di sotto della linea gotica. A nord le bestie, viste dal lato più basso dell’esistere. A nord-ovest c’era il ragazzo scarabocchio, un diversamente abile, suggerirebbe la spocchia lessicale del maestrinismo castrante di questa nostra era del domopack, un sfortunè, si diceva in forma più lucida e pietosa di chi un gran culo in partenza non l’aveva poi avuto, o in modo più comparativo un poc normèl, o più genericamente un mongol.
Il ragazzo scarabocchio se ne stava sul balcone ululante a una luna tutta sua. Era di un brutto da far spavento. Io bambino ne ero terrorizzato. Ero convinto che l’avessero rinchiuso sul balcone, uno di quei balconi che parevano per trama ferrosa un gabbio dove il ragazzo artigliava i suoi diti a salsiccia tumefatta cercando di sradicare il ferro dal macilente cemento, che l’avessero rinchiuso sul balcone perché all’interno della casa non si poteva tenere. Probabilmente, pensavo, è un cannibale. O forse azzanna solo e non manda giù, ma semplicemente morde staccando brandelli di carne ai suoi famigliari spaccando in due il gatto amputando gli ultimi pezzi di una rinsecchita nonna dimenticata dimenticata nel cesto della roba sporca e poi lancia i brandelli ad appiccicarsi  alla carta da parati che effettivamente a guardarla fa schifo, manifestando un senso dell’arte ragguardevole.
Il ragazzo era la perfetta riproduzione plusdimensionale di un disegno fatto da un bimbo di quattro anni: un faccione perfettamente tondo con un concentrato centrale in spazio minimo ottimizzato in una selva inestricabile di occhinasobocca su di un corpaccione senza confini ben tracciati. E latrava disperato e costante. Un canto rabbioso intarsiato di tristezza. Un canto che chiedeva a Dio il perché di tutto questo. E dal cielo giungeva quel eh oh! Che non offriva replica.

Il traffico d’automobile o il latrare del ragazzo non turbava minimamente il vegetare degli occupanti del Bar dei Tre Culi sull’angolo nord-est. Giocavano a carte, in un silenzio abissale. Un silenzio ch’era rigurgito d’olbio.

Se a questo punto pentiti per avere tentato di rendere così laidamente vivida una ricordanza fondante e terrificante, io, volessimo chiedere scusa all’auditorio descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu, che la noia del presente assillante ci porta a dire che erano meglio quei tempi di questi, in un  in una improponibile classifica di infiniti ieri contro un unico istante dell’oggi che non si incontreranno mai se non nell’esalazione del respiro dell’attimo che muore ma se muore non può più giocare e che classifica classifichi… se pentiti volessimo descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu, che ogni tanto il quotidiano locale, che non è più fatto con quella carta della barzelletta che ci narra le vicende di un vecchio e una vecchia impegnati in un turbinoso atto erotico carpiato ad incastro omoservente, dove il vecchio interrompendo il suo ammirevole sforzo linguale esclama – eh, set cle mort Fereri! - Al che la vecchia attonita e stupita abbandona la sua lodevole oralità e prorompe in un – eh, mo chi tla dit? – al che lapidario il canuto replica – eh, l’ò let in col toc ed gaseta cat ghe taca al cul!- se pentiti volessimo descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu, scriveremmo di un osteria povera ma linda e serena risuonante di urla gioiose e risate appassionate dei popolani, che in codesto loco ritrovano la pace del riposo dal duro ma onorato lavoro. Se così facessimo sarebbe come mutilare a colpi di marassa lo scroto alla verità. Non c’erano urla gioiose e risate appassionate dei popolani. L’afflizione della miseria, della tridura, portava gli avventori a mantenere un mesto silenzio anche durante le fasi salienti del gioco delle carte, quasi volessero nascondersi, tacendo, alla sfiga. Si sa che vi sono luoghi dove se tutto va per il meglio si nasce con due braccia due gambe e una sfiga impiantata dove volete voi come la spada nella roccia arturiana. Quella sfiga che accomuna tutti i lerciosi, che vorrebbero togliersela di dosso ma della sfiga non può mutilarti nessuno. È immutilabile. Nessun principe a cavarti l’arnese dal fodero natio. Perché la sfiga è più fedele di un cane. Non ti molla.
E allora vi racconto del bar dei Tre Culi così come lo ricordo, come mi torna a galla tra la melma dei miei quotidiani incubi.
Il bar dei Tre Culi anche nei periodi caldi dell’anno era mestamente silenzioso buio lampadina patinata di sugna e polvere e giallo nebbioso . Allora si poteva fumare nei bar, anche il mio maestro fumava duro in classe finché non fu obbligato dai polmoni consunti a tenersi in bocca una sorta di tubetto di vicks inalante fatto a finta sigaretta…
Pochi anni fa, di passaggio nella città di Parigi… a tal proposito vorrei testimoniare che Parma non ha nulla a che vedere con la Villa Luminaria, e non capisco come ci si ostini a definirla la Piccola Parigi, quando in realtà assomiglia molto di più e sempre di più ad Abbiategrasso. E di grasso ne abbiamo in abbondanza. Quel grasso di porco che lento e inesorabile infagotta il cervello limitandone cronicamente le più alte sue funzioni e affogandolo nella convinzione di essere ciò che non si è. Non smettete di fumare, mal che vada ci lasciate le piume in anticipo o forse in ritardo, ma smettete di mangiare carnazza rancida ben che vada vi ha già fatto divenire idioti…

Qualche anno fa di passaggio nella città di Parigi in un bel ristorantaccio nei pressi della Sorbona fumai con gusto dopo una tartarre di manzo, di quelle che i romantici usano legarsi al collo prima di tuffarsi nella Senna, in un bel ristorantaccio nei pressi della Sorbona fumai con gusto una delle ultime sigarette in antro pubblico.
Che bellezza. Che sensazione di libertà. E la sigaretta era una papier mais, una gitane fatta con carta gialla di mais senza filtro e molto forte e molto poco salutare come le esalazioni di un copertone che brucia.
Il bar dei Tre Culi. Non è mai stato raccontato nella rubrica della bella Parma che fu, forse perché troppo palesato nella sua tridezza anche per i fasulli cantori dei tempi che furono quei tempi che ora non sono più dove la gente era povera ma onesta e felice. Ah che nostalgia, dove è finita l’onesta umiltà dell’incedere della vita degli artigiani, dove sono le massaie tutte casa bambini e pentolini, la loro saggezza culinaria, e cosa ne è della gioia dello stare assieme dopo la lunga giornata di lavoro?
Questo straziante verismo, falso come i fondali di un noiosissimo dramma borghese ha sfinito anche se stesso. La miseria è cruda è magra ed è anche cattiva, giustamente cattiva. E allora ha bisogno di santi. I suoi santi non si chiamano sant’Ambrogio o Gregorio o Sferisterio, ma Lino o Ghiradino, santi anarchici santi che celebravano messa correndo a portare un sorriso e una minestra all’innumerevole schiera di sfiga congenita e penitente, una minestra condita di amore sconfinato e folle come piace a Dio a quel Dio che piace a me che se ci ha creati così come siamo è fuori di testa ma molto fuori di testa ma nessuno può togliergli la licenza di creare e allora lui va avanti, san Lino o san Ghiradino, santi anarchici santi che celebravano messa correndo a portare un sorriso e una minestra alla vecchia al carcerato al ragazzo scarabocchio agli innumerevoli sfigati, ma che davanti al Tre Culi si fermavano e tornavano indietro. La miseria è cattiva e   l’artigiano al lavoro probabilmente, mio caro spacciatore di pellicola protettiva, passava più tempo a sacramentare che a cantare un’aria verdiana. La femmina più che regina della casa era schiava di un uomo che con il matrimonio regolarizzava un sequestro di persona a scopo di libidine alla quando mi tira ti sbatto dal ventre per raccolta differenziata tutto scopost. E se la femmina non era brutta contro ogni logica geometrica, sfondata nei suoi punti cardine, deformata dalla nascita, dalla vita, dal lavoro, dal logoramento di sgravate a sharpnel, poteva ancora sperare in qualcosa. In una sveltina da consumarsi nel giro di pochi rantoli con il carrettiere o il venditore di sardine sotto sale nella cantina buia dove noi respiravamo piano e poi... in certi luoghi dove l’afflizione impera non si fa mai all’amore ma si imbraga si piglia nelle lamiere poccia si butta su della legna. O con metafora in puzzo di Dante si va a buttèr su d’la lègna.
Questi schiavi di penna edulcociti cresciuti nei piccoli agi della cecità vigliacca, che scrivono falsità e castronate sulla miseria, perché temono gli si riveli il senso recondito della vita, questi servi della nulla non vogliono ammettere che l’essere umano può anche essere un magnifico rottamente saldato a sputi che barcolla sull’esistenza senza afferrarne la più elementare sottigliezza. Queste cacche con le penne dovrebbero essere mandate in campo di rieducazione al bar dei Tre Culi, o dati in pasto al ragazzo scarabocchio affamato di carne e amore.
Questi cattivi pittori della parola hanno anche una moglie, è quella deliziata signora di mezza età e mezza  forse la mogliera dell’escremento escrivente mi chiede al termine del mio sforzo artistico: -ma lei che scuola di teatro ha frequentato?- e io – la Racagni- e lei – ohaahuuh mi dice qualcosa ma non ricordo… ma il direttore non è forse il famoso…- e io ancora – il direttore non so… io ricordo solo il bidello un tal Barantani con tanto di cappello da ufficiale in testa scozzale nero e il suo porca cicolada che equivaleva a qualsiasi tipo di esortazione – e lei – ah Barantani quello della prestigiosa compagnia… quindi non può che trattarsi dell’accademia si… e io sfinito- signora cara, la Racagni è la scuola elementare del posto più miserabile del ducato di Parma…-.
Si, cara la mia signora, se proprio vuole che sia un accademia lo sia di verità, c’è tanta verità nel quartiere della mia infanzia, verità non virtuosa, ma messa a nudo dallo scarnificante esistere. Che scuola a contrasto! In casa ascoltavo gli svariati Strauss, o la voce di un Foà cantar di Dante, ammiravo lo sciogliersi velato dei colori che mio padre spandeva sulle sue tele, e fuori ad aspettarmi c’era il Tre Culi, c’era il garzone del bottegaio, anche lui decisamente disassato e di mente non dinamica, di nome Ettore che parlava sbavando in mille rivoli, spesso volanti nell’aria e talvolta atterranti sul pane che portava in quel cesto sul suo biciclettone rinforzato e ortopedico, c’era il requiem quotidiano per bestemmia, la sensualità ancestrale animale della sorella dell’ortolano portante la prima minigonna avvistata nei Prati Bocchi, e c’era l’attesa del suo chinarsi a raccoglie quella cassetta là in basso, nella vana attesa di veder sorgere il mistero celato dalla mutanda. C’era il brivido profondo curioso di struscio tra corpi sudori e polvere di noi maschietti tra noi maschietti talvolta con femminuccia nostra ketcup su patatine, tanto che differenza c’era. E c’era tanto altro o nulla più. Si, cara la mia signora. All’accademia Racagni c’era anche una specializzazione in teatro della crudeltà, c’era la sezione differenziale dove si accatastavano i bimbi con ritardi mentali, fisici, caratteriali, in un unico serraglio, per tenerli celati e lontani dagli altri, mai fosse che con le loro bave potessero ungerci, e poco importa se la bava di Ettore già infarciva inesorabile la nostra rosetta con mortadella. Forse anche per questo, cara la mia signora, non riesco a portare l’orologio da polso e detesto lo zoo, ma certe notti mi sveglio affamato e mi sembra di sentire l’aroma graffiante della rosetta con mortadella e mi dico: i buoni sapori di una volta che ora non ci sono più.
Alle fosche ombre del pentimento che ti fanno dire ma che cazzo ho scritto, occorre opporre all’immediato un finale: vi è una domanda che esige una risposta. Quella risposta all’unica domanda sensata che tutti ci siamo fatti e che poteva porre termine a questa storia nel giro di poche battute. Perché bar dei Tre Culi? Alla camera di commercio non lo trovi sotto quel nome. Tre è un numero simbolico, crea un insieme dinamico superiore al dualismo statico del due, quindi tre potrebbe puntare all’essere sinonimo di infinito o di plurimo. Culi è una pluralità di esigenze. Il Tre Culi era un luogo per vecchi logorati in attesa dell’unico forestiero che lì vi sostava per ripartire al più presto: Caron Dimonio. Il sito della triade anale era un luogo dove nell’attesa dell’imbarco si beveva vino pessimo contenuto nell'archeologico bottiglione da due litri e si fumava senza interruzione un campionario di sigarette di fattura nazionale che andava dalle cartonate alfa, alle indecifrabili MS. Questa miscela di afflizione morale cronica, vino crudele, e tabacco diserbante, portava a una inevitabile fermentazione nelle viscere afflosciate, un latrante incedere di nubi dense di fetenza che, vuoi per l’usura del tempo e del vivere, vuoi per una assoluta noncuranza del prossimo, si esprimeva in mostruosa deflagrazione cronica corale e tempestosa di scorreggia epica. L’aroma pestilenziale si dilatava all’esterno del locale, in un fosco presagio cernobiliano. Un presidio costante. Qualche mente con spiccato senso della sintesi passando d’innanzi a questa uscita di sicurezza dell’inferno battezzò il luogo con il sarcastico e lapidario TRE CULI. Un lezzo narrativo. Un fetore che si racconta. Un omerico spander di sisso. In puzzo si fa immagine, come un quadro di Munch urla per mezzo delle tre bocche anali spalancate sul fetido orror vacui, e ci racconta la Parma di una volta che ora non c’è più.

martedì 20 novembre 2012

in via Rolando dé Capelluti c'erano delle panchine






In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine. In uno spazio tra il numero civico 34 e il numero civico 36. Al 34 abitava C.P.. Un ragazzo. Un coetaneo. Un Capannone.

Stacco
In questo racconto i Capannoni sono da intendersi come esseri umani e non strutture edilizie impermanenti. Il curioso termine  deriva dalle fatiscenti case-baracca dove negli anni ’20 del novecento vennero trasferiti una buona parte degli abitanti dell’Oltretorrente. Il nome di questo quartiere e di questa filosofia è dato dal fatto di stare dall’altra parte del fiume. Qualche spanna oltre i nasini della ParmaBene.

in via Rolando dè Capelluti c’era gente speciale. Irripetibile. CpuntoPpunto l’è v’on ‘n po’ originäl. È nato in via Rolando dè Capelluti. Un’irripetibilità indelebile. Anche se la sposti di posto. Negli anni ottanta i Capannoni furono spostati. Un altra volta. Parcellizzati in nuovi quartieri. Non devono fare radici forti. I capannoni. C’erano nuovi scatoloni di cemento da spianare (inaugurare). Nuovi da far schifo. CpuntoPpunto è in piazzale Charlie Chaplin. Un Chaplin che non fa ridere. CpuntoPpunto con cappello da conboi  stella da sceriffo in plastica colt anch’essa rigorosamente di plasticaccia ‘nni sessanta. Tciuchioo! Uno sparo. Con la bocca. Sfiuuu. Con la bocca CpuntoPpunto soffia sulla canna. Mentre ripone la pistola nella fondina con stella da sceriffo CpuntoPpunto ha quasi trentanni. Ci stiamo avvicinando ai terribili anni novanta. Ci stiamo allontanando dai terribili anni ottanta quando ancora CpuntoPpunto abitava al numero civico 34 di via Rolando dè Capelluti.

In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine. In uno spazio tra il numero civico 34 e il numero civico 36. Al 36 dimorava M.Ù. ragazza di fiera stirpe sicula. Nell’epoca della ricostruzione post-bellica quando ci si rammendava il culo di fresco sfondato dallo ienchimericano l’immigrazione dalla Bassitalia venne a rabboccare l’antica strirpe Capannona che rischiava l’estinzione.

MpuntoÙpunto ha pelle color dell’oliva scura occhi grandi come arance e una magrezza da pescatore. MpuntoÙpunto non venne considerata dall’opinione pubblica maschile capannonesca un oggetto di desiderio.

stacco
In via Rolando dè Capelluti - e non siamo in qualche tundrico ...stan ma nella illuminata Padanìa- le femmine extramamma si dividevano in cinque sottogruppi:

da tor su e portär a ca (da prendere su e portare a casa): intoccabili per bellezza e ceto sociale. Specie migrante da piazzale Pablo a misteriose zone del più ambito Centro Città. Si muovono in bicicletta e gonna. Solitamente rapite dall’estasiato maschio in forma d’immagine mnemonica. Il resto accadeva nell’intimità.

da sposär (sposabili): toccabili ma dopo certezza di accasamento a fin che morte del marito non ci separi. Di bellezza e intelligenza media o variabile. Rigorosamente illibate o variabili. All’apparenza addomesticabili. In realtà domatrici senza variabile.

da drovär (adoperabili): generose democratiche con predisposizione e posizione naturale all’insegnamento con cattedra in ars amatoria al motto di moschettiera memoria una per tutti (la propria) tutti per una (la platonica). In assenza di cattedra si usava il ruvido prato del Maretto.

Mas-ciass (maschiaccio): femmine che rinnegano il loro status naturale di nascita per confluire nel serraglio maschile. Per accedere a questa ambita sottoclasse era necessario divenire una sorta di amazzone. Giocare a calcio e bene. Saper sputare dritto e lungo senza disperdere il bolo lateralmente o sugli indumenti. Ruttare fragorosamente a schiocco di frusta. Il peto era facoltativo ma quelle che riuscivano ascendevano inesorabilmente al vertice della casta.  Quando la situazione lo richideva potevano prendere o dare cazzotti ed erano più quelli dati che presi.  Una volta iniziate le maschiaccio erano accettate dal branco cazzuto e rispettate come e più dei minchiuti nativi.

da butär in tal rud (da buttare nella spazzatura). Cessi inesorabili.

MpuntoÙpunto non rientrava in alcuna di queste sommarie categorie. Agli occhi del maschio pabliano aveva una sorta d'inviolabile invisibilità fuori da ogni classificazione possibile: invisibile né brutta né bella né pasta né riso. Grave errore. MpuntoÙpunto era bella.
Ero un diversamentepensante anche allora e la fiera sicula dagli occhi all’arancia ai miei risultava semplicemente bella. E la bellezza non ha categorie non si divide né si classifica. Esiste. Una bellezza visibile a chi attraverso uno strappo nello straccio del tempo intuisce il richiamo ancestrale di tratti somatici sopravvissuti allo stratificarsi di generazioni. MpuntoÙpunto è uno di quegl’esseri privilegiati portatori d’ancestrali sapienze riprodotte sul proprio soma che ci indicano la luminosa via del mistero. Una donna romanica e barocca. Una donna fluttuante tra sublime e sub-limo. La voce era stupenda. Una creatura con testa di violino e corpo di flauto. Ho cantato con lei sulle panchine tra il 34 e il 36. Con l’aiuto di ragazzi mormoni in missione nei sottofondi pabliani si fece una canzone che ancora oggi risuona nei corridoi abbandonati del ricordo. Il canto parlava di riflessioni nello specchio in un gioco di sovrapposizioni tra anima e apparenza. Quando MpuntoÙpunto rideva squillava e i suoi occhi aranciati mettendosi a roteare la sollevavano verso l’alto. Si allungava. Non le ho mai confessato la mia passione non avrei saputo esprimermi e forse nemmeno sapevo con esattezza d’avere una passione. Non sapevo neppure se il mio polo d’attrazione fosse maschio o femmina. Non rendere materia di consumo il desiderio ha salvato la sua immagine di sacerdotessa da banalità di corpo e umori. La melma dell’amarsi per non amarsi più non l’ha soffocata. La melma del miserabile quartiere non l’ha fagocitata. È finita in America. E in America canta. Nel mio cuore la sacerdotessa è salva.

In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine tra il numero 34 e il numero 36, forse progettate da un geometro ricostruttore postbellico che in un momento di rara lucidità e di ancor più rara umanità si fece qualche scrupolo riguardo ai loculi da lui progettati: 40 metri quadri da dividersi per sei o più esseri tutto sommato umani possono creare problemi di respirazione collettiva. Il geometro quindi creò un’area di boccheggio. E boccheggi furono le panchine tra il 34 e il 36. Da maggio a ottobre furoreggiavano di salubre e bellicosa giovinezza una magnifica schiatta di mischiati dalla sorte.

Stacco
I trinariciuti ricostruttori postfottutabellica s’inventarono un caos edilizio senza precedenti gettando a raglio nei loro scatoloni in mattone le quattro semenze sociali superstiti. La popolare. La residenzial-signorile. L’artigianale. L’industriale. Umane classi trasformate in carte da briscola mescolate nel fantasioso gioco della speculazione edilizia e gettate in quelli che furono i campi di un tal Bocchi. Operai ex-contadini artigiani professionisti intellettuali artisti tutti deportati da altri Oltre- furono precipitati nel nuovo minestrone edilizio. Nuove famiglie non appartenenti alla placca della borghesia consolidata si ritrovarono unite attorno al centro di quell’orribile esempio di piazzale pensato e disegnato da un Mondrian padano scosso da deliri dovuti all’eccesso di margarina rancida: Piazzale Pablo. Un giardino degli orrori. Come accade in tutti i luoghi di detenzione forzata ci si stringeva in solidarietà altrimenti impensabili. È in questi luoghi di convivenza forzata e rafforzante tra individui di differenti classi sociali uniti da un innato spirito anarchico che da secoli si è mantenuta eretta la spina dorsale di una città altrimenti gobba e irrimediabilmente bosucca (testona crapulona) e chiusa come il culo di uno che s’è mangiato un albero di limone (endemiche caratteristiche dell’adiposa sonnuta e acida classe dominante parmigggiana). In questi luoghi io sono nato. Luoghi fuori. Fuori luogo. Io non avrei dovuto essere là. Eppure c’ero.

In via Capelluti c’erano delle panchine. Erano quattro. Erano di cemento conficcate nel muro. Avevano la forma di un biscottone plasmon spiaccicato sul muro da un bambinone schizzato. Brutte. Ma funzionali. Facevano centro facevano ombelico facevano bus dal gnao (cavità anale). Erano un libero e spontaneo luogo di ritrovo. Erano i miei quattordici anni. Probabilmente due di meno. Quattordici suona meglio di dodici. Una figura alta lunga di lunghi capelli. I tratti da femmina fiamminga. È in quel luogo che ebbi la prima folgorazione verso la via impervia del teatro. In realtà volevo dirigere un film. E film di fatto fu. Un film senza la macchina da presa e la pellicola. Un film vano inesistente. Il film perfetto. Inattaccabile dal morbo dell’invecchiamento. Senza produttori. Solo prodotti dell’attimo che non fugge perché non esiste e quindi non ha le gambe. Non sapevo allora che tutto questo si poteva chiamare teatro. Il soggetto straordinariamente già trito. Rivalità tra due clan. Ma guarda un po’?! La fiera sicula come colonna sonora costante. Un moto perpetuo di emozioni. Due ragazzi si innamorano. Uno di un clan l’altra dell’altro. Non s’ha da fare. Ma non dirmi! I due clan si scontrano. L’azione è d’un realismo sconcertante. Casino allo stato brado. L’ultima scena vede un getto d’acqua proveniente da una delle tante finestre schiantarsi sul set. Non era in scaletta. Sui titoli di coda si vedono i due clan riunirsi per rilanciare insulti e altri non identificati oggetti verso le finestre nemiche. Non era in scaletta. Fine. Il cuore traboccante di gioia. Abbiamo fatto un film. Bello. I due clan che si menano. Geniale. Si va nei loculi. Solo il regista e qualche suo centurione restano a godere l’eco del fragore espresso.
Arriva un Fiat 128. Dentro due uomini. Scende quello dalla parte del passeggero. Corpulento baffi a foca. Moro. Il tutto fa molto maschio latinoamericano. È un poliziotto. La cravatta gli assomiglia in modo sorprendente. È corpulenta. Un rantolo corpulento gli esce dalla bocca. Dice. La prossima volta che rompete i coglioni io vi rompo le ossa. Il manganello che sbattacchia sulla corpulenta mano sorride all’idea. In quel momento decido. Senza dirmelo.  Farò del teatro.

In via Rolando dè Capelluti c’erano delle panchine tra il numero 34 e il numero 36. Qualche oscuro Stalin ducale le fece abbattere. Come fossero il set di un film. Le nostre panchine. I nostri orribili biscottoni Plasmon. Ci abbattemmo. Come fossimo un film.