Il bar
dei Tre Culi distava duecento metri dalla mia infanzia. Dai luoghi che
contennero la mia infanzia. Dai luoghi che illuminarono la mia infanzia. La
illuminarono d’ombra.
Luoghi
che furono per me monito e letame. Un mare di letame.
In quel
mare dolente imparai a nuotare, ma non ancorai al Bar dei Tre Culi. Non c’era
attracco al bar dei Tre Culi. Non c’era speranza. Era un bar trido. Tritato come un vecchio abito ridotto a pezzi. Rimarrà solo
un emblema dei luoghi della mia infanzia. Un manifesto nichilista della miseria
che non sta nel tessuto logoro ma nello spazio vuoto dello strappo.
Era un
bar orribile e ostile d’una tristezza desolante. Era un bar dove non si entrava
dove non si usciva. Giaceva all’angolo nord-est all’incrocio tra viale Piacenza
e via Rolando De Capelluti. Via Rolando de Capelluti era un affluente di un
altro canale di umano scolo a cielo aperto: via Buffolara. Ma questo è un altro
girone.
Viale
Piacenza traghettava mirabili fiat millecento, fulgide lancia fulvia o
centoventisette che veloci e indifferenti passavano. Lì non si fermava nessuno.
Viale Piacenza, come prometteva il nome, ti portava lontano. E tra i nativi in
pochi riusciranno a evadere dalla crudeltà artigliante di quella subvivenza.
Io in
qualche modo vi riuscii.
Il bar era
inumato su di un angolo tondo. I quattro angoli dell’incrocio si distinguevano
in cispiacenzini e transpiacenzini.
A sud il
bestiame e suoi prodotti. A sud est una latteria a sud ovest un macellaio. Il
piscio mammario bianco e il rosso carne carcassa di vacca al di sotto della
linea gotica. A nord le bestie, viste dal lato più basso dell’esistere. A nord-ovest
c’era il ragazzo scarabocchio, un diversamente abile, suggerirebbe la spocchia
lessicale del maestrinismo castrante di questa nostra era del domopack, un sfortunè,
si diceva in forma più lucida e
pietosa di chi un gran culo in partenza non l’aveva poi avuto, o in modo più
comparativo un poc normèl, o più genericamente un mongol.
Il ragazzo scarabocchio se ne stava sul balcone ululante a una
luna tutta sua. Era di un brutto da far spavento. Io bambino ne ero
terrorizzato. Ero convinto che l’avessero rinchiuso sul balcone, uno di quei
balconi che parevano per trama ferrosa un gabbio dove il ragazzo artigliava i
suoi diti a salsiccia tumefatta cercando di sradicare il ferro dal macilente
cemento, che l’avessero rinchiuso sul balcone perché all’interno della casa non
si poteva tenere. Probabilmente, pensavo, è un cannibale. O forse azzanna solo e
non manda giù, ma semplicemente morde staccando brandelli di carne ai suoi
famigliari spaccando in due il gatto amputando gli ultimi pezzi di una
rinsecchita nonna dimenticata dimenticata nel cesto della roba sporca e poi
lancia i brandelli ad appiccicarsi
alla carta da parati che effettivamente a guardarla fa schifo,
manifestando un senso dell’arte ragguardevole.
Il
ragazzo era la perfetta riproduzione plusdimensionale di un disegno fatto da un
bimbo di quattro anni: un faccione perfettamente tondo con un concentrato
centrale in spazio minimo ottimizzato in una selva inestricabile di
occhinasobocca su di un corpaccione senza confini ben tracciati. E latrava
disperato e costante. Un canto rabbioso intarsiato di tristezza. Un canto che
chiedeva a Dio il perché di tutto questo. E dal cielo giungeva quel eh oh! Che
non offriva replica.
Il
traffico d’automobile o il latrare del ragazzo non turbava minimamente il
vegetare degli occupanti del Bar dei Tre Culi sull’angolo nord-est. Giocavano a
carte, in un silenzio abissale. Un silenzio ch’era rigurgito d’olbio.
Se a
questo punto pentiti per avere tentato di rendere così laidamente vivida una
ricordanza fondante e terrificante, io, volessimo chiedere scusa all’auditorio descrivere
con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma di un tempo che fu,
che la noia del presente assillante ci porta a dire che erano meglio quei tempi
di questi, in un in una
improponibile classifica di infiniti ieri contro un unico istante dell’oggi che
non si incontreranno mai se non nell’esalazione del respiro dell’attimo che
muore ma se muore non può più giocare e che classifica classifichi… se pentiti
volessimo descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla Parma
di un tempo che fu, che ogni tanto il quotidiano locale, che non è più fatto
con quella carta della barzelletta che ci narra le vicende di un vecchio e una
vecchia impegnati in un turbinoso atto erotico carpiato ad incastro omoservente,
dove il vecchio interrompendo il suo ammirevole sforzo linguale esclama – eh,
set cle mort Fereri! - Al che la vecchia attonita e stupita abbandona la sua
lodevole oralità e prorompe in un – eh, mo chi tla dit? – al che lapidario il
canuto replica – eh, l’ò let in col toc ed gaseta cat ghe taca al cul!- se
pentiti volessimo descrivere con il manierismo folk tipico delle rubriche sulla
Parma di un tempo che fu, scriveremmo di un osteria povera ma linda e serena
risuonante di urla gioiose e risate appassionate dei popolani, che in codesto
loco ritrovano la pace del riposo dal duro ma onorato lavoro. Se così facessimo
sarebbe come mutilare a colpi di marassa lo scroto alla verità. Non c’erano urla
gioiose e risate appassionate dei popolani. L’afflizione della miseria, della tridura,
portava gli avventori a mantenere un mesto silenzio anche durante le fasi
salienti del gioco delle carte, quasi volessero nascondersi, tacendo, alla
sfiga. Si sa che vi sono luoghi dove se tutto va per il meglio si nasce con due
braccia due gambe e una sfiga impiantata dove volete voi come la spada nella
roccia arturiana. Quella sfiga che accomuna tutti i lerciosi, che vorrebbero
togliersela di dosso ma della sfiga non può mutilarti nessuno. È immutilabile. Nessun
principe a cavarti l’arnese dal fodero natio. Perché la sfiga è più fedele di
un cane. Non ti molla.
E allora
vi racconto del bar dei Tre Culi così come lo ricordo, come mi torna a galla
tra la melma dei miei quotidiani incubi.
Il bar
dei Tre Culi anche nei periodi caldi dell’anno era mestamente silenzioso buio
lampadina patinata di sugna e polvere e giallo nebbioso . Allora si poteva
fumare nei bar, anche il mio maestro fumava duro in classe finché non fu
obbligato dai polmoni consunti a tenersi in bocca una sorta di tubetto di vicks
inalante fatto a finta sigaretta…
Pochi
anni fa, di passaggio nella città di Parigi… a tal proposito vorrei
testimoniare che Parma non ha nulla a che vedere con la Villa Luminaria, e non
capisco come ci si ostini a definirla la Piccola Parigi, quando in realtà
assomiglia molto di più e sempre di più ad Abbiategrasso. E di grasso ne
abbiamo in abbondanza. Quel grasso di porco che lento e inesorabile infagotta
il cervello limitandone cronicamente le più alte sue funzioni e affogandolo
nella convinzione di essere ciò che non si è. Non smettete di fumare, mal che
vada ci lasciate le piume in anticipo o forse in ritardo, ma smettete di
mangiare carnazza rancida ben che vada vi ha già fatto divenire idioti…
Qualche
anno fa di passaggio nella città di Parigi in un bel ristorantaccio nei pressi
della Sorbona fumai con gusto dopo una tartarre di manzo, di quelle che i
romantici usano legarsi al collo prima di tuffarsi nella Senna, in un bel
ristorantaccio nei pressi della Sorbona fumai con gusto una delle ultime
sigarette in antro pubblico.
Che
bellezza. Che sensazione di libertà. E la sigaretta era una papier mais, una
gitane fatta con carta gialla di mais senza filtro e molto forte e molto poco
salutare come le esalazioni di un copertone che brucia.
Il bar
dei Tre Culi. Non è mai stato raccontato nella rubrica della bella Parma che
fu, forse perché troppo palesato nella sua tridezza anche per i fasulli cantori
dei tempi che furono quei tempi che ora non sono più dove la gente era povera
ma onesta e felice. Ah che nostalgia, dove è finita l’onesta umiltà
dell’incedere della vita degli artigiani, dove sono le massaie tutte casa
bambini e pentolini, la loro saggezza culinaria, e cosa ne è della gioia dello
stare assieme dopo la lunga giornata di lavoro?
Questo
straziante verismo, falso come i fondali di un noiosissimo dramma borghese ha
sfinito anche se stesso. La miseria è cruda è magra ed è anche cattiva,
giustamente cattiva. E allora ha bisogno di santi. I suoi santi non si chiamano
sant’Ambrogio o Gregorio o Sferisterio, ma Lino o Ghiradino, santi anarchici
santi che celebravano messa correndo a portare un sorriso e una minestra
all’innumerevole schiera di sfiga congenita e penitente, una minestra condita
di amore sconfinato e folle come piace a Dio a quel Dio che piace a me che se
ci ha creati così come siamo è fuori di testa ma molto fuori di testa ma
nessuno può togliergli la licenza di creare e allora lui va avanti, san Lino o
san Ghiradino, santi anarchici santi che celebravano messa correndo a portare
un sorriso e una minestra alla vecchia al carcerato al ragazzo scarabocchio
agli innumerevoli sfigati, ma che davanti al Tre Culi si fermavano e tornavano
indietro. La miseria è cattiva e l’artigiano al lavoro probabilmente, mio
caro spacciatore di pellicola protettiva, passava più tempo a sacramentare che
a cantare un’aria verdiana. La femmina più che regina della casa era schiava di
un uomo che con il matrimonio regolarizzava un sequestro di persona a scopo di
libidine alla quando mi tira ti sbatto dal ventre per raccolta differenziata
tutto scopost. E se la femmina non era brutta contro ogni logica geometrica,
sfondata nei suoi punti cardine, deformata dalla nascita, dalla vita, dal lavoro,
dal logoramento di sgravate a sharpnel, poteva ancora sperare in qualcosa. In
una sveltina da consumarsi nel giro di pochi rantoli con il carrettiere o il
venditore di sardine sotto sale nella cantina buia dove noi respiravamo piano e
poi... in certi luoghi dove l’afflizione
impera non si fa mai all’amore ma si imbraga si piglia nelle lamiere poccia si
butta su della legna. O con metafora in puzzo di Dante si va a buttèr su d’la lègna.
Questi
schiavi di penna edulcociti cresciuti nei piccoli agi della cecità vigliacca,
che scrivono falsità e castronate sulla miseria, perché temono gli si riveli il
senso recondito della vita, questi servi della nulla non vogliono ammettere che
l’essere umano può anche essere un magnifico rottamente saldato a sputi che
barcolla sull’esistenza senza afferrarne la più elementare sottigliezza. Queste
cacche con le penne dovrebbero essere mandate in campo di rieducazione al bar
dei Tre Culi, o dati in pasto al ragazzo scarabocchio affamato di carne e amore.
Questi
cattivi pittori della parola hanno anche una moglie, è quella deliziata signora
di mezza età e mezza forse la
mogliera dell’escremento escrivente mi chiede al termine del mio sforzo
artistico: -ma lei che scuola di teatro ha frequentato?- e io – la Racagni- e
lei – ohaahuuh mi dice qualcosa ma non ricordo… ma il direttore non è forse il
famoso…- e io ancora – il direttore non so… io ricordo solo il bidello un tal
Barantani con tanto di cappello da ufficiale in testa scozzale nero e il suo
porca cicolada che equivaleva a qualsiasi tipo di esortazione – e lei – ah
Barantani quello della prestigiosa compagnia… quindi non può che trattarsi
dell’accademia si… e io sfinito- signora cara, la Racagni è la scuola
elementare del posto più miserabile del ducato di Parma…-.
Si, cara
la mia signora, se proprio vuole che sia un accademia lo sia di verità, c’è
tanta verità nel quartiere della mia infanzia, verità non virtuosa, ma messa a
nudo dallo scarnificante esistere. Che scuola a contrasto! In casa ascoltavo
gli svariati Strauss, o la voce di un Foà cantar di Dante, ammiravo lo
sciogliersi velato dei colori che mio padre spandeva sulle sue tele, e fuori ad
aspettarmi c’era il Tre Culi, c’era il garzone del bottegaio, anche lui
decisamente disassato e di mente non dinamica, di nome Ettore che parlava
sbavando in mille rivoli, spesso volanti nell’aria e talvolta atterranti sul
pane che portava in quel cesto sul suo biciclettone rinforzato e ortopedico,
c’era il requiem quotidiano per bestemmia, la sensualità ancestrale animale
della sorella dell’ortolano portante la prima minigonna avvistata nei Prati
Bocchi, e c’era l’attesa del suo chinarsi a raccoglie quella cassetta là in
basso, nella vana attesa di veder sorgere il mistero celato dalla mutanda.
C’era il brivido profondo curioso di struscio tra corpi sudori e polvere di noi
maschietti tra noi maschietti talvolta con femminuccia nostra ketcup su
patatine, tanto che differenza c’era. E c’era tanto altro o nulla più. Si, cara
la mia signora. All’accademia Racagni c’era anche una specializzazione in
teatro della crudeltà, c’era la sezione differenziale dove si
accatastavano i bimbi con ritardi mentali, fisici, caratteriali, in un unico
serraglio, per tenerli celati e lontani dagli altri, mai fosse che con le loro
bave potessero ungerci, e poco importa se la bava di Ettore già infarciva
inesorabile la nostra rosetta con mortadella. Forse anche per questo, cara la
mia signora, non riesco a portare l’orologio da polso e detesto lo zoo, ma
certe notti mi sveglio affamato e mi sembra di sentire l’aroma graffiante della
rosetta con mortadella e mi dico: i buoni sapori di una volta che ora non ci
sono più.
Alle
fosche ombre del pentimento che ti fanno dire ma che cazzo ho scritto, occorre
opporre all’immediato un finale: vi è una domanda che esige una risposta.
Quella risposta all’unica domanda sensata che tutti ci siamo fatti e che poteva
porre termine a questa storia nel giro di poche battute. Perché bar dei Tre
Culi? Alla camera di commercio non lo trovi sotto quel nome. Tre è un numero
simbolico, crea un insieme dinamico superiore al dualismo statico del due, quindi
tre potrebbe puntare all’essere sinonimo di infinito o di plurimo. Culi è una
pluralità di esigenze. Il Tre Culi era un luogo per vecchi logorati in attesa
dell’unico forestiero che lì vi sostava per ripartire al più presto: Caron Dimonio.
Il sito della triade anale era un luogo dove nell’attesa dell’imbarco si beveva
vino pessimo contenuto nell'archeologico bottiglione da due litri e si fumava
senza interruzione un campionario di sigarette di fattura nazionale che andava
dalle cartonate alfa, alle indecifrabili MS. Questa miscela di
afflizione morale cronica, vino crudele, e tabacco diserbante, portava a una
inevitabile fermentazione nelle viscere afflosciate, un latrante incedere di
nubi dense di fetenza che, vuoi per l’usura del tempo e del vivere, vuoi per
una assoluta noncuranza del prossimo, si esprimeva in mostruosa deflagrazione
cronica corale e tempestosa di scorreggia epica. L’aroma pestilenziale si
dilatava all’esterno del locale, in un fosco presagio cernobiliano. Un presidio
costante. Qualche mente con spiccato senso della sintesi passando d’innanzi a
questa uscita di sicurezza dell’inferno battezzò il luogo con il sarcastico e
lapidario TRE CULI. Un lezzo narrativo. Un fetore che si racconta. Un omerico
spander di sisso. In puzzo si fa immagine, come un quadro di Munch urla per
mezzo delle tre bocche anali spalancate sul fetido orror vacui, e ci racconta
la Parma di una volta che ora non c’è più.
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